Il dibattito sulla migrazione è sempre stato al centro delle discussioni politiche e sociali, ma negli ultimi anni ha acquisito un'importanza ancora maggiore, alimentato da conflitti globali, crisi economiche e sfide politiche interne. Spesso, il tema viene affrontato da diverse prospettive, ma raramente si considera in modo completo, unendo gli aspetti umanitari e quelli economici, e riflettendo sul diritto umano di muoversi liberamente nel mondo.
Da ex emigrata, sento particolarmente questo dibattito. Quando si parla di italiani emigranti, il discorso sembra concentrarsi quasi sempre sui "cervelli in fuga" o su altri aspetti positivi, implicitamente assegnando agli italiani il diritto alla libertà di movimento e alla scelta del luogo dove vivere, lavorare e costruirsi una famiglia. Tuttavia, questa stessa cortesia non sembra essere sempre estesa a chi migra verso l’Italia, soprattutto a chi proviene da paesi come l’Afghanistan, l’Iraq o da altre zone in conflitto.
Perché questa differenza di prospettiva? Gli italiani sono sempre emigrati, e sebbene non sempre abbiano apportato miglioramenti immediati alle società in cui si sono stabiliti, la narrazione sembra concentrarsi sul loro contributo più che sul disagio o sulla criminalità. Invece, quando parliamo degli “altri” migranti, li vediamo spesso come un “problema” o una “minaccia”, e non come esseri umani in cerca di opportunità. Questa differenza di trattamento nasce da pregiudizi, paure e politiche xenofobe, che ci impediscono di vedere la migrazione come un diritto fondamentale di tutti, e non ci permettono di cogliere le molteplici opportunità che la migrazione ci offre, anche in termini di ricchezza culturale.
Lavorando come "asylum case owner" a Londra (un ruolo che si potrebbe tradurre con “responsabile delle richieste di asilo”), ho avuto modo di incontrare numerosi migranti e ascoltare le loro storie. Ogni caso era diverso, ma dietro ogni racconto c’era sempre una costante: il desiderio di un futuro migliore, lontano da conflitti, persecuzioni o povertà. Un esempio che mi ha colpito riguarda un medico ricercatore sudanese. Suo fratello era stato arrestato per motivi politici e lui era dovuto fuggire dal Sudan, lasciando moglie e figlio. Nonostante le difficoltà, aveva una lettera di offerta di lavoro da un centro di ricerca londinese. La sua intervista fu lunga e piena di emozioni. Ma quando gli comunicai che la sua richiesta di asilo era stata accolta, il suo volto si illuminò in un sorriso di incredibile gratitudine. “Appena arriveranno mia moglie e mio figlio,” mi disse, “ci piacerebbe invitarvi a cena.” Un gesto che, pur doverosamente rifiutato per motivi professionali, mi riempì il cuore di una sensazione di calore umano che difficilmente si può descrivere.
Bisognerebbe sempre ricordare che dietro ogni migrazione c’è un individuo, una famiglia, una storia da rispettare.
Nel mio lavoro, ho intervistato anche persone in centri di detenzione, private della libertà e spesso in condizioni difficili. Non era facile instaurare una relazione di fiducia, considerando che il mio ruolo era quello di decidere se avrebbero ottenuto o meno l’asilo. Ogni intervista poteva durare anche un'intera giornata, e durante la raccolta delle risposte mi assicuravo che comprendessero che stavo scrivendo tutto "ad verbatim" (parola per parola) per garantire la precisione. Utilizzavo domande aperte ("Mi racconti cosa è successo?") e chiuse ("Quando è successo?"), cercando di raccogliere il maggior numero di dettagli possibile e chiedendo chiarimenti quando qualcosa nella storia non quadrava per prendere una decisione giusta ed equa.
Anche se molti distorcevano la verità, cercavo sempre di mantenere un approccio empatico. Un caso che mi viene in mente riguarda un uomo pachistano, molto avanti negli anni, la cui richiesta di asilo non fu accettata, poiché basata su difficoltà economiche in Pakistan piuttosto che su un pericolo reale di persecuzione. Nonostante ciò, gli parlai del "programma di ritorno volontario", un programma che gli avrebbe permesso di tornare a casa con dignità. E così accettò di partire, di tornare al suo Paese. Mesi dopo, in ufficio arrivò una cartolina di Natale, indirizzata proprio a me, con un suo messaggio di gratitudine. Mi colpì profondamente. Quel gesto, seppur semplice, mi fa pensare a quanto siano preziosi il rispetto e la riconoscenza, anche nei momenti di difficoltà.
Quando leggo o ascolto annunci di deportazioni di massa o notizie di migranti trattati come merci, senza un adeguato "screening", mi assale un senso di incertezza, confusione e paura per il futuro. Sembra che la nostra società stia perdendo di vista la realtà. Si parla spesso di frontiere chiuse, di flussi incontrollati e di politiche sempre più restrittive, senza considerare che dietro ogni persona in movimento c’è una storia, un sogno, una famiglia. Ciò che queste persone cercano non è solo un lavoro o una vita migliore, ma una dignità che appartiene a tutti.
Dovremmo continuamente chiederci cosa accadrebbe a noi, che ci sentiamo così privilegiati solo perché siamo nati in questa parte del mondo, se ci trovassimo nelle loro stesse condizioni e venissimo trattati allo stesso modo.
Il problema della migrazione è complesso e, ovviamente, non aspiro a risolverlo in questo articolo, ma il messaggio che vorrei dare è che, ora più che mai, in questo periodo storico, risulta fondamentale prestare attenzione a ciò che accade intorno a noi. Non dobbiamo permettere che la disumanizzazione diventi la norma. L’empatia è ciò che ci distingue dalle altre specie e dobbiamo fare tutto il possibile per preservarla. Solo così possiamo sperare di lasciare alle generazioni future un mondo più giusto, dove ogni individuo possa vivere con dignità, senza paura di essere respinto o ignorato.
Daniela Pau